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Archive for novembre 2011

Paola Severino, chi è? Noi la conosciamo come Ministro della Giustizia del governo Monti, ma qual è la sua storia? Classe 1948, nasce con la nostra Costituzione, ma che forse conosce poco (come i suoi predecessori), per la prima volta una donna ad un ministero così ostico, anche se per essere meglio di Alfano o di Castelli ci vuole poco, ma per esser peggio ce la sta mettendo tutta con una serie di dichiarazioni. La Severino è stata avvocato difensore di: Romano Prodi, Giovanni Acampora  (legale Finivest) nel processo Imi-Sir, Francesco Gaetano Caltagirone (suocero di Pierferdinando Casini) nell’inchiesta di su Enimont, Cesare Geronzi  per il crac della Cirio, l’ex segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni  nell’indagine sui fondi per la gestione della tenuta di Castelporziano, per carità la Costituzione prevede che tutti abbiano diritto alla difesa, ma dopo uomini per tutte le stagioni adesso arrivano le donne (Carfagna, Gelmini, Brambilla erano in esclusiva).

Fra i primi atti che compie la Severino la nomina del giudice Filippo Grisolia come presidente della Corte d’Assise e così il processo a carico dei presunti colpevoli di aver sciolto nell’acido la testimone di ‘Ndrangheta Lea Garofalo, riparte da zero e proprio i presunti colpevoli potrebbero essere rimessi in libertà per decorso dei termini della custodia cautelare. La Severino comincia presto a svuotare le carceri, comincia da persone vicine alla criminalità organizzata. Ma le sue teorie su chi non debba stare in carcere sono note da tempo, nel 2009 dichiarò: “Le condanne sugli infortuni sul lavoro sono eccessive quando l’incidente è dovuto a scelte imprevedibili dell’infortunato” In Italia la maggior parte degli infortuni avvengono nell’edilizia, è vero che spesso i lavoratori nonostante abbiano i dispositivi di sicurezza non li indossano, ma bisognerebbe chiedersi il perché? La risposta sarebbe che il caschetto, l’imbragatura impacciano i movimenti e loro hanno ordini precisi: “Sbrigarsi” Allora perché non farsi una chiacchierata con Passera per incentivare ricerca, sviluppo per trovare materiali maneggevoli, comodi che potrebbero garantire sicurezza ed efficienza? Dico Passera perché Sacconi era noto per la sua posizione di non considerare infortuni sul lavoro incidenti nell’edilizia, quindi anche per un marziano sarebbe stato impossibile fargli capire che un operaio non sta a 4 euro l’ora su un’impalcatura per hobby.

La Severino poi ha un’altra idea geniale per svuotare le carceri, il braccialetto elettronico. Fino ad agosto di quest’anno era in dotazione da tre detenuti, mentre uno era riuscito a manometterlo ed ancora oggi è latitante. Il costo del braccialetto elettronico come soluzione alla detenzione in carcere è di 110 milioni di euro (gran parte del costo è dovuto alla Telecom che si occupa della rintracciabilità), questa decisione fu varata dal secondo governo di Giuliano Amato. Fin’ora questa possibilità di detenzione cautelare è stata inapplicata per svariati motivi, ma la Severino è convinta che possa svuotare gli istituti di pena. Immaginiamo uno spacciatore che gli venga prospettata questa soluzione, sarebbe ben felice di tornarsene a casa consapevole che non avrà controlli fisici dalle forze di polizia poiché controllato elettronicamente e potrà proliferare i suoi affari nella sua bella piazza di spaccio. Ben venga non essere propensa all’amnistia ma si potrebbe essere propensi ad esempio a depenalizzare alcuni reati (la legge Giovanardi-Fini riempie le carceri), oppure piuttosto che spendere milioni di euro per il braccialetto elettronico, venisse applicato quanto previsto nell’articolo 27 della Costituzione: la rieducazione del condannato, attraverso l’incremento ed il finanziamento di attività sociali, lavorative, prendere come modello di riferimento carceri che funzionano come quello di Bollate (la percentuale di reiterazione del reato scontata la pena è bassissima), utilizzare di più forme alternative alla detenzione, in Italia abbiamo condanno Salvatore Ligresti (classe 1932) ai servizi sociali, dopo aver rubato agli italiani per una vita, è poco importante se in punto di morte si penta e cambi condotta, il curriculum ormai è tratto. Il consiglio per la Severino: dovrebbe scrollarsi dall’idea che ha di irrecuperabilità dei condannati, visto le sue difese!

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Le statistiche Inail sugli infortuni mortali sul lavoro non tornano, il dato non tiene conto delle morti per malattie professionali, degli incidenti stradali e di coloro che sono deceduti dopo un certo numero di giorni dalla data dell’infortunio. Nonostante ciò e la cassa integrazione le percentuali sono in diminuzione, sempre secondo loro. L’elenco menzionato è il risultato di un conteggio o specificatamente di un non conteggio, invece c’è una lista che non viene presa in considerazione e dunque non fa notizia: sono i lavoratori e le lavoratrici che vengono licenziati o lo stanno per essere e si suicidano. Non si tolgono la vita perché non possono permettersi la manutenzione dell’aereo privato o dell’amante, ma non possono pagare gli studi dei figli, le bollette, la rata del mutuo. Decine di uomini e donne che non vengono menzionati da nessuno, ma che sono il risultato di una crisi economica senza precedenti e senza uno spiraglio di soluzione. Il rapporto diffuso dall’Eures,  evidenzia lo stretto legame tra chi decide di togliersi la vita e la sua situazione economico-occupazionale: nel 2009 sono stati 357 i suicidi compiuti da disoccupati, con una crescita del 37,3% rispetto ai 260 casi del 2008. Le percuntuali sono alte anche per i tentativi di suicidio, è triste la consapevolezza che un disoccupato al giorno non trova alternativa al suicidio e non c’è distinzione fra Nord e Sud del Paese. Di seguito alcuni casi avvenuti nel 2011:

Padova, 18 novembre. Giancarlo Perin, 52 anni, si è impiccato alla gru della sua azienda edile perché non poteva più pagare i dipendenti.

Agrigento, 23 agosto. G. S., 28 anni, disoccupato. Il giovane avrebbe perso da poco il lavoro e sarebbe entrato in depressione per questo motivo si è tolto tragicamente la vita impiccandosi con un corda legata ad un albero all’interno della riserva naturale di Torre Salsa.

Oristano, 28 giugno. Un uomo di 54 anni si è ucciso, ingerendo della soda caustica, poche ore dopo essere stato licenziato dal titolare del distributore di carburante presso il quale lavorava

Milano, 9 giugno. perde casa e lavoro e si suicida un uomo di 63 anni

Palermo, 22 aprile. Un quarantenne palermitano, disperato perchè non riusciva a trovare un lavoro, si è lanciato dalla parte più alta del ponte.

Salò, 22 aprile. Ventottenne pakistano perde il lavoro e si suicida gettandosi nel lago

Mestre, 12 aprile. Perde il lavoro, ingegnere si uccide lanciandosi dal terzo piano

Firenze, 29 marzo ritrovato 47enne, scomparso da casa a gennaio dopo un litigio con la moglie, era finito in cassa integrazione, ma questa era giunta al termine

Catania, 28 marzo. Un operaio della Pubbliservizi, Antonino Lanza di 50 anni, si è suicidato lanciandosi dalla tromba delle scale del palazzo in cui ha sede l’azienda per cui lavorava era stato licenziato.

Ragusa, 4 marzo Era disperato perché non riusciva a trovare lavoro. Salvatore Giannone, modicano di 55 anni, per questo ha deciso d’impiccarsi ad una trave del tetto della cucina

Pordenone, 2 marzo. Padre di 3 figlie perde il lavoro e si suicida

Padova, 17 febbraio. Un uomo di cinquanta anni di Limena, in provincia di Padova, si è tolto la vita, impiccandosi nella rimessa della propria abitazione. Il cinquantenne, dipendente di una cooperativa, aveva dovuto affrontare periodi di cassa integrazione. A preoccuparlo ulteriormente sarebbe stata la prospettiva di vedere compromesso per sempre il suo posto di lavoro per gli sviluppi della situazione aziendale.

Bergamo, 31 gennaio. Operaio perde il lavoro e si suicida dandosi fuoco.

Ragusa, 15 gennaio Lo hanno trovato impiccato P. C., 30 anni, sposato e padre di un figlio in tenera età, licenziato qualche settimana fa da un supermercato di Ragusa dove lavorava come commesso per avere incassato alcuni buoni sconto da cinque euro

Messina, 6 gennaio  La causa del gesto estremo dell’uomo è riconducibile alla perdita del proprio lavoro. L’impossibilità di trovarne un altro lo aveva fatto cadere in una profonda depressione e ieri la decisione di farla finita. Dopo essere stato soccorso dal personale medico del 118, il 36enne è stato ricoverato presso il nosocomio di Sant’Agata Militello (ME), per le cure del caso.

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A noi aquilani sono arrivati una valanga di insulti, siamo stati tacciati di essere dei piagnoni ai quali non andava bene nulla, non eravamo meritevoli delle case che in Irpinia sognano ancora, ci hanno augurato trent’anni di container invece di chiedere trasparenza sul denaro che arrivò per il terremoto del 1980: 63mila miliardi di lire. A L’Aquila  è certo  che denaro non è arrivato, quel poco se lo sono spartito fra stato, politici, amministratori, imprenditori e perfino la Curia. Il decreto Abruzzo prevedeva una parte di entrate per la ricostruzione tramite giochi, dopo oltre due anni lo stato è debitore per più di un milione di euro e il Presidente del Consiglio, attaverso una società creata ad hoc per giochi on line, deve ai terremotati 14 miliardi di euro. Ma in questo Paese si sa, lo stato fa prima a prendere che a dare, e allora chiede indietro le tasse che erano state sospese nel 2009 e parte del 2010 (fino a luglio). Per gli aquilani niente sconti, devono restituire il 100 per cento, a differenza dei terremotati Umbria e Marche che hanno restituito il 40 per cento dopo 10 anni. Tredici, delle centoventi rate, lo Stato le vuole subito, entro dicembre 2011.

La provincia de L’Aquila non è esente dalla crisi economica che caratterizza l’intera nazione, ma a questo si aggiunge il terremoto. In realtà tutti ci aspettavamo qualcosa di diverso, dove c’è distruzione bisogna ricostruire, quindi c’è lavoro. Ma nessuno aveva fatto i conti con il Governo, nonostante i personaggi avevano un curriculum di 15 anni di esperienze i politici locali si sono calate le braghe. Però la dittatura non dev’essere dichiarata per viverla, bastava osservare quello che è accaduto e accade. Quando le decisioni arrivano dall’alto, senza rispettare il principio democratico di poter scegliere, dovrebbe essere tutto chiaro. Il progetto C.A.S.E. ce lo cuciono addosso. Sindaco e Bertolaso decidono quali terreni espropriare, stando attenti a non sottrarre proprietà a Chiesa e baronie, ed ecco qua che il risultato sono nuove costruzioni ciò che desiderava la coppia Berlusconi/Bertolaso. I primi favori sono stati restituiti ai fedelissimi: la cricca delle intercettazioni si aggiudica appalti milionari. I secondi favori sono stati restitui con appalti alla criminalità organizzata: mafia, camorra e ‘ndrangheta. Mentre il miracolo della ricostruzione fa il giro del mondo tramite i mezzi d’informazione di proprietà o controllati dal Presidente del Consiglio L’Aquila è ancora zona off limits presidiata dall’esercito. La ricostruzione delle case di proprietà una chimera.

Agli aquilani non resta che chiudere bottega oppure elemosinare un subappalto del subappalto. Ironia della sorte, nella provincia dell’Aquila il tasso di disoccupazione, di lavoratori in cassa integrazione e mobilità è il più alto d’Italia. Non a caso qualcuno rideva alle 3.32 e qualcuno moriva, qualcuno pensava alle tasche gonfie e qualcuno perdeva la casa, qualcuno viene indagato, messo velocemente ai domiciliari e infine prosciolto e qualcuno aspetta una lenta giustizia. Morale della favola Berlusconi ha preso tutto ciò che poteva prendere, senza dare nulla, nemmeno l’elemosina, perchè ben presto i teremotati dovranno restituire  anche il soldi del progetto C.A.S.E., senza distinzione fra chi era in affitto e chi aveva una casa di proprietà e pagava un mutuo. E li chiamavano aiuti….

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Dal racconto di Giuliana Rasman

(…) Dal 1992 mio fratello cambiò. Era in cura presso il centro di salute mentale di Domio (Ts) per schizofrenia paranoide. Nel 1999 i vicini di casa chiamarono il 113 perché stava ascoltando della musica in macchina ad alto volume. Due poliziotti entrarono in
casa dei miei e colpirono ripetutamente Riccardo. Mio fratello li querelò. La denuncia venne archiviata, ma dopo un mese arrivò una querela dai poliziotti per calunnia, anche se dal reperto medico risultava un trauma cranico e facciale. Riccardo fu condannato
con la sospensione della pena a insaputa di tutti. Non c’era un motivo così grave affinché agissero in quel modo. Una brutta copia di ciò che sarebbe accaduto sette anni dopo.
Verso le 19:30 del 27 ottobre Riccardo salutò i nostri genitori in campagna. Di lì a poco incontrò dei conoscenti che si fermò a salutare. Poi proseguì in auto, i miei erano dietro. Si separarono al bivio. Riccardo andò verso casa sua in via Grego, a Trieste. Alle 21 aveva un appuntamento con gli amici a Borgo San Sergio. Dovevano festeggiare, poiché dal lunedì successivo avrebbe iniziato un lavoro che gli aveva trovato un amico. Riccardo, arrivato in via Grego, parcheggiò la macchina dietro al palazzo: sotto il lampione e le sue finestre. Lì ritrovammo l’auto il giorno dopo. Erano circa le 19:45 (lo possiamo affermare con certezza perché abbiamo ripercorso la strada che aveva percorso quella sera, dal bivio fino al quarto piano di casa sua). Alle
20 circa si sentirono esplodere dei petardi. Alcuni dichiararono per strada, altri nel cortile. Fatto sta che Annamaria Pollanz chiamò il 113 alle ore 20:09 dal suo appartamento, poi scese al quarto piano, a casa di Roberto Cavallaro, dove incrociò sua figlia Romina che diceva di essere ferita a un orecchio a causa del petardo, perché al momento dell’esplosione era in strada. C’erano anche la Steiner e Antonella Gagliani. Attesero l’arrivo della polizia. La madre di Roberto, sapendo che Riccardo si stava preparando per uscire, chiamò Franco Pollanz che era lì ad aspettare la polizia.
Roberto Cavallaro si vide arrivare alla sua porta l’agente Mis con l’agente Gatti; Mis si recò sul terrazzino per parlare con Riccardo e chiedergli di aprire la porta. Quando rientrò, Mis riferì che Riccardo non voleva aprire, quindi mandò a chiamare i Vigili del fuoco e i rinforzi. Erano le 20:25. Dopo dieci minuti giunsero altri due agenti: Miraz e De Biasi, che salirono al quarto piano, in attesa dei vigili. Secondo la registrazione telefonica, alle 20:38’08’’, Mis chiamò la centrale chiedendo di verificare il cognome del tipo che non voleva aprire e chiese se era seguito presso il centro di salute mentale di Domio o dall’Ospedale Maggiore. Quando arrivarono i Vigili del fuoco, erano in quattro, al portone d’ingresso incrociarono altri due agenti che li attendevano per indicare loro l’appartamento segnalato. I Vigili del fuoco salirono, a detta del vigile Giovanni Sadoch, e trovarono gli altri agenti sul pianerottolo: tre uomini e una donna, che
ordinarono di sfondare la porta. Questi agenti avevano già il manganello in mano, perlomeno uno di loro. Certi che si trattasse di Riccardo Rasman diedero il via all’operazione. Entrati, è facile immaginare come ammanettarono mio fratello: lo tennero fermo sul letto, dopo averlo steso a pancia a terra, chiesero ai Vigili del fuoco di aiutarli a legargli le caviglie col fil di ferro. Lo imbavagliarono persino. Gli salirono sulla schiena. Sadoch durante l’interrogatorio affermò anche: «Tornando al momento in cui l’uomo è stato ammanettato, devo dire che poco dopo sono arrivati altri agenti, i quali ci hanno detto che potevamo andare via, e così abbiamo fatto». Riccardo era ancora vivo, anche se immobilizzato in quelle tremende condizioni e con la testa insanguinata. Una serie di domande ancora oggi mi assillano.
Chi erano quegli agenti? Franco Pollanz dichiarò che aveva raccolto i petardi da terra, scoppiati, e li aveva consegnati agli agenti. Nel verbale non vennero menzionati. Qualcuno mise fuori dalla porta una bottiglia di vino vuota che fu fotografata. Il giorno dopo sul «Piccolo», il custode Pollanz disse che mio fratello era sempre ubriaco e prendeva farmaci, così gli era venuto un collasso.
L’autopsia ha chiarito che non aveva assunto alcol né altre sostanze. Erano mesi che mio fratello non andava più a casa sua, aveva paura. Aveva trovato anche un biglietto di minacce di morte. Due anni dopo la morte di Riccardo, abbiamo scoperto che era stato fermato in stato di ebbrezza e il 2 ottobre 2006 era stato condannato con sospensione
della pena. Non erano riusciti a metterlo dentro, però il successivo 27 ottobre lo assalirono come bestie inferocite a un orario in cui era in casa e lo massacrarono di botte. Aveva trentaquattro anni ed era morto per «asfissia da posizione». Quella notte verso le 2:30, vari agenti di polizia vennero a casa nostra per comunicare il decesso di Riccardo. Il vicesovrintendente Andrea Ronchi ci riferì che Riccardo aveva ferito a sangue una ragazza, e per questo avevano agito. Erano dovuti intervenire in sei. Non c’era nessun referto medico che parlasse del ferimento della ragazza (che poi sarebbe stata la figlia di Franco Pollanz). All’inizio, il pm Pietro Montrone chiese l’archiviazione del caso data l’eccezionalità della situazione e l’esigenza di difesa da parte degli agenti.
Tramite il nostro avvocato presentammo un’opposizione all’archiviazione. Lo stesso pm ritirò poi la richiesta di archiviazione. Il 30 gennaio 2009 con rito abbreviato15 sono stati condannati i due capipattuglia, i sovrintendenti Mis e Miraz, l’assistente De Biasi a sei mesi con la condizionale ed è stata prosciolta l’assistente Gatti. La stessa condanna è stata confermata in appello il 30 giugno 2010.

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