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Archive for the ‘Federico Aldrovandi’ Category

patriziaCondanna sia, condanna resti” non dimenticherò mai  queste parole di Patrizia Moretti  dette fra le lacrime dopo la sentenza di primo grado che condannava i quattro poliziotti. Venni a conoscenza di quanto accaduto, la notte del 25 settembre del 2005, al diciottenne Federico Aldrovandi tramite le trasmissione “Chi l’ha visto”; con tanta dignità due genitori chiedevano aiuto ai loro concittadini: “Chi ha visto ci aiuti a capire com’è morto nostro figlio.”  I protagonisti dei fatti sono gli agenti di polizia Enzo Pontani, Luca Pollastri, Paolo Forlani e Monica Segatto e il cittadino Federico. Quattro contro uno. I poliziotti durante il processo dichiararono che il ragazzo era violento, una furia ingestibile e loro si difesero. Difesi a tal punto da creare decine di lesioni, ecchimosi, scroto schiacciato. I poliziotti vennero iscritti nel registro degli indagati e le indagini vennero affidate alla polizia: controllore e controllato coincidono. Per mesi il fascicolo rimase vuoto e Patrizia fu costretta a denunciare l’inerzia delle forze dell’ordine e fu aperto un’altra inchiesta per  falso, omissione e mancata trasmissione di atti. A questo punto Patrizia e Lino iniziarono a reperire prove e  si resero conto che i poliziotti avevano fatto il giro delle abitazioni in via dell’Ippodromo, nessuno doveva parlare, ma fortunatamente una donna Annie Marie Tsagueu testimoniò quanto visto e ascoltato quella sera. La perizia medico legale disposta dal Pubblico Ministero indicava come causa di morte l’assunzione di alcol e droghe, invece, per la perizia di parte, Federico sarebbe morto per asfissia da compressione, cioè i poliziotti salendo sul corpo del ragazzo per immobilizzarlo gli impedirono di respirare. Una perizia super partes tolse ogni dubbio: le sostanze assunte da Federico erano talmente esigue che non potevano aver causato la sua morte, tantomeno aver provocato un’alterazione psicofisica. I poliziotti vennero condannati in primo grado a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo, ma non furono sospesi dal servizio. Dopo la sentenza iniziò un’altra battaglia: la condanna doveva diventare definitiva. Dopo anni di attesa il 21 giugno del 2012 la Cassazione confermò la pena. Si potrebbe pensare che finalmente il calvario di una famiglia finisce, invece questa vicenda è contornata da un’umanità da orrore. Subito dopo la condanna su facebook, sulla pagina prima difesa, sono comparse scritte infamanti di uno degli agenti condannati: Patrizia Moretti avrebbe allevato il figlio come un cucciolo di maiale.  Il sindacato di polizia Coisp, qualche mese fa, si presentò sotto la finestra di Patrizia Moretti per manifestare solidarietà ai poliziotti condannati. Le forze di polizia giurano fedeltà alla Costituzione e alle leggi dello Stato, dunque le pene non dovrebbero essere più severe per chi indossa la divisa e dovrebbe tutela il cittadino in base alle leggi su cui ha prestato giuramento? Tre poliziotti sono tornati liberi perché una parte della pena rientrava nell’indulto e il sindacato di polizia Coisp ha espresso gioia per la loro libertà, ma non dovrebbero essere sospesi definitivamente dalla polizia? A cosa è servito tanto dolore? A cosa è servita la fatica di una famiglia per trovare testimonianze? A cosa è servito pagare il miglior avvocato per avere giustizia? Un ragazzo di 18 anni non tornerà mai più a casa, i suoi assassini tornano liberi e potrebbero tornare a fare lo stesso lavoro, si può chiamare giustizia questa?

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pena-di-morteQuando intervistati la madre e la sorella di Stefano Cucchi ci incontrammo vicino al luogo dove fu arrestato il ragazzo.  Le due donne, seppur disperate e straziate dal dolore, avevano una speranza: la giustizia.  Raccontavano il dramma di Stefano, avevano messo a nudo la loro vita, foto diffuse attraverso i media con l’unico obiettivo di scoprire la verità. Iniziarono ad informarsi e trovarono Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Aldrovandi. Dall’alta parte però sui giornali comparivano  le parole prive di fondamento dei massimi esponenti delle istituzioni: Giovanardi (allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche per la famiglia ed al contrasto per le tossicodipendenze) definì Stefano Cucchi un drogato morto di anoressia, La Russa espresse piena fiducia nelle forze di polizia. Giudizi per influenzare l’opinione pubblica, prima che la magistratura accerti cosa sia accaduto, non dovrebbero esprimersi in un Paese civile e democratico. Stefano Cucchi è stato portato in carcere e nella cartella clinica c’è scritto: “Riferisce caduta accidentale nella giornata di ivi (16/10/2009) consigliato ricovero presso Fate Bene Fratelli che il detenuto ha rifiutato” Inoltre lamentava dolore all’addome e alla regione sacro coccigea. In un altro referto si può leggere “Si rilevano lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente, di lieve entità e colorito purpureo. Riferisce dolore e lesioni anche alla regione sacrale e agli arti inferiori, ma rifiuta l’ispezione.” Già questi pochi dettagli bastano per sollevare dei dubbi. Aspetteremo le motivazioni della sentenza che assove gli infermieri, ma soprattutto gli agenti di polizia penitenziaria. Da non dimenticare che Stefano la prima notte la trascorse nella caserma dei carabinieri e la mattina in tribunale aveva già il volto segnato, ma i carabinieri raramente vengono indagati.

da  “La pena di morte italiana”. Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi sono morti in circostanze oscure dopo l’arresto da parte delle forze dell’ordine. Casi ormai emblematici che grazie allo sforzo delle famiglie sono arrivati in tribunale. Ma per poche storie che hanno conquistato le prime pagine dei quotidiani, ce ne sono molte altre che l’opinione pubblica ha dimenticato o ignorato. Come quella di Niki Aprile Gatti, arrestato per una frode informatica in cui è coinvolta la società dove lavora. Unico tra i 18 accusati, accetta di collaborare, e cinque giorni dopo viene trovato impiccato in prigione. Come può un laccio da scarpe aver retto il peso di un ragazzo di 92 chili? E Fabio Benini, morto a trent’anni di infarto alle Vallette di Torino: soffriva di anoressia, aveva perso 50 chili e collassava due volte al giorno, perché nessuno ha saputo intervenire? Non bastano il sovraffollamento e l’inadeguata assistenza psicologica e sanitaria a spiegare queste storie: spesso sono proprio le forze dell’ordine a macchiarsi di omissione di soccorsoabusi e violenze contro i detenuti che dovrebbero proteggere e rieducare. In questo racconto di troppe morti sospette, Samanta di Persio ricostruisce, attraverso verbali e testimonianze dei famigliari, gli episodi più inquietanti, fa il punto sulle indagini in corso e denuncia il silenzio delle istituzioni. Perché l’Italia per legge non ammette la pena di morte e la tortura, ma forse le tollera quando avvengono dietro le sbarre. 

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federicoMa quanti gradi di giudizio esistono in Italia?” Sono le parole di Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, dopo aver appreso la notizia degli arresti domiciliari per l’agente Monica Segatto. Per arrivare ad una sentenza della Cassazione, che ha confermato la pena per gli assassini di un ragazzo di 18 anni, c’è voluto il coraggio, la forza di Patrizia, Lino e di chi ha sempre creduto che Federico era stato ammazzato. Dopo il fatto, le indagini sono state affidate alla polizia, inquirente e indagato coincidevano ed infatti nei primi mesi: depistaggi, fascicoli vuoti, indagini lente.

Nel 2012, dopo 7 anni, la condanna definitiva: tre anni e sei mesi (tre anni rientrano nell’indulto) quindi sei mesi. Da una parte un ragazzo di 18 anni che non tornerà mai più a casa, dall’altra uomini in divisa che violano le leggi, sulle quali prestano giuramento,che vengono condannati a scontare una pena insignificante. Ma l’orrore non finisce con una sentenza ingiusta, continua: il sindacato Coisp si è presentato sotto la finestra dove lavora Patrizia con un cartello sul quale c’era scritto: “La legge non è uguale per tutti”. Già, la legge non è uguale per tutti. Le norme in materia di sospensione delle forze di polizia sono chiare: l’articolo 8 all’art. 8 del  D.P.R. 737/1981 prevede la destituzione di diritto  per condanna, passata in giudicato, che importi l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici. L’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare.” La sospensione dal servizio e la destituzione vengono inflitte a seguito del giudizio del consiglio centrale o provinciale di disciplina (poliziotti che devono decidere l’allontanamento di altri poliziotti, quindi mai sospesi nemmeno dopo la sentenza di primo grado, sic!).

C’è qualcosa di inspiegabile che è accaduto nella nostra società. Ognuno si arroga il diritto di poter interpretare qualsiasi fatto in maniera soggettiva. Non esistono più le sentenze, non esiste  più l’oggettività della magistratura, non esistono più le leggi: c’è chi può non rispettarle, c’è chi decide se andare o meno ad un’udienza dove si dibatte per la propria innocenza o colpevolezza. Un Paese affetto da follia. Ci sono madri che piangono i loro figli perché sono stati ammazzati da chi dovrebbe rappresentare lo Stato e dovrebbe dare il massimo esempio del rispetto delle leggi italiane.

Le parole di Haidi Giuliani, intervistata per il libro, “La pena di morte italiana“, oggi ancor di più, dovrebbero essere seriamente prese in considerazione da chi ha un ruolo di dirigenza nelle forze di polizia: “E’ possibile che una persona, lavorando all’interno della polizia, non si trovi mai ad assistere a comportamenti scorretti? No, non è possibile. Se ciascuno denunciasse responsabilmente ogni irregolarità, ogni abuso, ogni prepotenza, tutto questo non sarebbe avvenuto, non sarebbe esistito. Ma si sa: una mano lava l’altra; si sa: tutti hanno famiglia, tutti hanno paura delle ritorsioni, di compromettere le proprie possibilità di fare carriera, o peggio, di perdere il lavoro. Così si comincia a chiudere un occhio, poi entrambi e si finisce per sentirsi dire: “I poliziotti sono dei bastardi” E’ sempre sbagliato generalizzare: bisogna guardare al comportamento di ognuno ed evitare i giudizi sommari; tuttavia conosco parecchie persone che, ormai, quando vedono una divisa cambiano strada (…) Nelle testimonianze delle persone che hanno subito violenze a Bolzaneto si legge che alcuni agenti hanno avuto un comportamento “più umano”; però poi quegli stessi agenti non hanno denunciato le violenze cui hanno assistito. Questo non è soltanto corporativismo, questa è omertà. Con l’omertà non si riconquista la propria dignità.

ps. Ho meditato molto sulla scelta della foto, avrei voluto mettere una foto sorridente, ma poi mi sono detta : “C’è qualcuno che ancora non ha capito e allora è il caso di non dimenticare mai il volto di Federico dopo il pestaggio da parte delle forze dell’ordine”

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A luglio del 2001  l’incontro del G8 si svolse a Genova. Accaddero molti episodi violenti: la morte di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, i fatti nella caserma di Bolzaneto e nella scuola Diaz.  Macelleria messicana, sospensione dei diritti costituzionali. Per la morte di Carlo Giuliani c’è stata un’archiviazione nei confronti dell’unico imputato, il carabiniere Mario Placanica, per l’uso legittimo delle armi oltre che per legittima difesa. Per i fatti della Caserma di Bolzaneto il 14 luglio 2008 in  primo grado ci sono state 15 condanne e trenta assoluzioni. Il 5 marzo 2010 i giudici d’appello di Genova, hanno emesso 44 condanne. I condannati dovranno risarcire le vittime insieme al Ministero della Giusitiza, dell’Interno e della Difesa, per una cifra complessiva superiore ai dieci milioni di euro. Il 1 giugno del 2012 la Cassazione conferma i succitati ministeri al risarcimento di 10 milioni di euro. Per i fatti della scuola Diaz il 13 novembre 2008 in primo grado sono state pronunciate 13 condanne per i funzionari e sedici assoluzioni. Il 18 maggio 2010 nel processo di appello sono stati condannati 25 imputati su 27.  Il 5 Luglio 2012 la Cassazione conferma in via definitiva le condanne per falso aggravato confermando l’impianto accusatorio della Corte d’Appello. Convalida così la condanna a 4 anni per Francesco Gratteri, attuale capo del dipartimento centrale anticrimine della Polizia; convalida anche i 4 anni per Giovanni Luperi, vicedirettore Ucigos ai tempi del G8, oggi capo del reparto analisi dell’Aisi. Tre anni e 8 mesi a Gilberto Caldarozzi, attuale capo servizio centrale operativo. Convalida anche la condanna a 5 anni per Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto mobile di Roma. Prescrive, invece, i reati di lesioni gravi contestati a nove agenti appartenenti al settimo nucleo speciale della Mobile all’epoca dei fatti. Come pena accessoria, per i vertici, l’nterderdizione dai pubblici uffici per 5 anni, poi verranno licenziati?

Riccardo Rasman  il 27 ottobre del 2006 viene ucciso in casa sua. Quattro poliziotti, con l’ausilio dei vigili del fuoco,  sfondano la porta, poi  lo legano con il fil di ferro, lo immobilizzano, lo ammanettano dietro la schiena, lo pestano e lo  massacrano con i manganelli, fino alla morte per asfissia da posizione.  Nelle indagini preliminari il Pm aveva chiesto l’archiviazione perché  Francesca Gatti, Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi avevano agito nell’adempimento di un dovere. Il 29 gennaio 2009 con rito abbreviato i poliziotti, tranne la donna, vengono condannati a sei mesi, pena sospesa, e a una provvisionale di 60.000 euro. Il 30 giugno 2010 la Corte d’Appello di Trieste ha confermato la sentenza di primo grado. Il 12 dicembre 2011 la Cassazione conferma la condanna. La famiglia Rasman ha avuto il risarcimento dal Ministero dell’Interno, quest’ultimo farà rivalsa sugli agenti che continuano a svolgere le loro funzioni?

Federico Aldrovandi il 25 settembre del 2005 viene fermato dalla polizia nei pressi di Viale Ippodromo della sua città, Ferrara. Viene immobilizzato a terra, ammanettato dietro la schiena, picchiato con i manganelli,  muore per asfissia da posizione. Il 6 luglio del 2009 Pontani, Luca Pollastri, Paolo Forlani e Monica Segatto vengono condannati per omicidio colposo a tre anni e sei mesi di reclusione, grazie all’indulto, varato nel 2006, 3 anni rientrano nell’indulto. Il 10 giugno 2011 la corte d’Appello conferma la condanna mentre a favore dei familiari viene stabilito un risarcimento di due milioni di euro se non si costituiscono parti civili nei procedimenti ancora aperti. Nel frattempo non sono stati sospesi dal servizio, nemmeno in via cautelativa come prevede l’art. 9, 2° c. del D.P.R. 737/81. Il 21 giugno 2012 la Cassazione ha reso definitiva la condanna e adesso?

La legge, seppur complessa,  sembra essere chiara.

  1. In materia di sospensione delle forze di polizia

La materia è molto complessa e sembrerebbe quasi lasciare libero arbitrio. L’articolo 55 quater del D.Lgs. n. 165/2001 prevede il Licenziamento disciplinare senza preavviso (giusta causa di licenziamento) nel caso di gravi e reiterate condotte “aggressive  o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque  lesive dell’onore e della dignità personale altrui” L’articolo 7 del  D.P.R. 737/81 prevede la destituzione per  atti che siano in grave contrasto con i doveri assunti con il giuramento  e per grave abuso di autorità o di fiducia. Mentre l’articolo 8 all’art. 8 del  D.P.R. 737/1981 prevede la destituzione di diritto  per condanna, passata in giudicato, che importi l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici. In base alla legge 97 2001, nell’art. 4 è previsto “Salvo quanto disposto dall’articolo 32-quinquies del codice penale, nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti indicati nel comma 1 dell’articolo 3, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare.”La sospensione dal servizio e la destituzione vengono inflitte a seguito del giudizio del consiglio centrale o provinciale di disciplina (poliziotti che devono decidere l’allontanamento dei colleghi)

  1. In materia sul pagamento spese legali polizia di stato

L’Art. 32 della legge 152 del 1975 prevede: “Nei procedimenti a carico di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o dei militari in servizio di pubblica sicurezza per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, la difesa può essere assunta a richiesta dell’interessato dall’Avvocatura dello Stato o da libero professionista di fiducia dell’interessato medesimo. In questo secondo caso le spese di difesa sono a carico del Ministero dell’interno salva rivalsa se vi è responsabilità dell’imputato per fatto doloso. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano a favore di qualsiasi persona che, legalmente richiesta dall’appartenente alle forze di polizia, gli presti assistenza.”

ringrazio l’avv. Paolo Iannini per la ricerca normativa

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24 settembre 2005, Federico ha 18 anni e tutta la vita davanti. La mattina a scuola ed il pomeriggio con il pensiero della sera da trascorrere in discoteca. Forse un po’ di alcool, forse una pasticca come fanno purtroppo tanti ragazzi della sua età per sballarsi. Al rientro, verso le 5 del mattino, si fece lasciare dai suoi amici vicino all’ippodromo di Ferrara, voleva fare due passi a piedi. Sicuramente euforico: cantava, barcollava ed era solo. Una donna lo nota, chiama la polizia. Questi arrivano, chiedono i documenti a Federico che purtroppo non ha con sé.

Lo fermano alle 5:47. Alle 6:10 arriva una chiamata al 118, per quel ragazzo «strano». Quando l’ambulanza giunge sul luogo, Federico è già morto. Per i giornali è morto di overdose, è un albanese, gli amici lo hanno investito. Invece è Federico Aldrovandi, studente diciottenne di Ferrara, incensurato e senza nessuna arma.

I genitori sono preoccupati, il figlio ancora non rientra a casa. Chiamano più volte sul cellulare, senza riceve risposte. Alle 11 Patrizia e Lino vengono a sapere della tragedia. All’obitorio trovano Federico con il viso sfigurato, il sangue alla bocca e un’ecchimosi all’occhio destro. Poi vengono a sapere di due ferite lacero contuse dietro la testa, lo scroto schiacciato, due petecchie – due lividi da compressione – sul collo. Pestato, pestato e poi ancora pestato.

La polizia lo descrive come imbufalito, una vera furia. Quattro agenti, fra cui una donna, contro un adolescente che secondo loro avrebbe voluto farsi del male da solo. Sbatteva la testa sul muro, ma non saranno mai trovate tracce di sangue altrove, se non per terra e sui vestiti indossati dal ragazzo. Dall’autopsia non risulta che avesse ingerito sostanze tossiche così forti da provocare un’overdose. Qualcuno ha visto Federico immobilizzato, a terra. Un agente gli puntava un ginocchio sulla schiena e un manganello sotto la gola, mentre con l’altra mano gli tirava i capelli. Il ragazzo sussultava, faceva salti di mezzo metro. Al suo fianco, una poliziotta si sarebbe vantata: «L’ho tirato giù io, ‘sto stronzo!»

Condannati: in primo e secondo grado. Per Patrizia Moretti: «Condanna sia e condanna resti» Il 21 giugno 2012 anche la Cassazione conferma la condanna a 3 anni e 6 mesi,  3 anni rientrano nell’indulto. Eccesso colposo nella forza (la chiamerei violenza). I poliziotti dal 2005 non sono stati mai sospesi, semplicemente allontanati. E’ vero, si è innocenti fino al terzo grado di giudizio, ma qui si tratta di forze di polizia, di tutori della sicurezza pubblica. La condanna diventa una sentenza storica, ma in un Paese democratico e civile dovrebbe essere la normalità. Gli stessi poliziotti che fanno bene il loro lavoro dovrebbero chiedere l’allontanamento dei colleghi. La famiglia Aldrovandi ha ricevuto minacce, querele per aver avuto la forza di andare avanti. Federico non è mai tornato a casa.

La testimonianza di Patrizia Moretti è contenuta nel libro La pena di morte italiana

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Federico aveva diciotto anni e tutta una vita davanti.
Una gran voglia di «spaccare il mondo». Era il 24 settembre
2005. La mattina a scuola e poi tutto il pomeriggio
passato con il pensiero della sera in discoteca.
Forse una pasticca, un po’ di alcol per sballarsi per restare
tutta la domenica a letto. Come fanno purtroppo
tanti suoi coetanei. Al rientro, verso le cinque del
mattino, si fece lasciare vicino all’ippodromo di Ferrara,
voleva fare due passi a piedi per rilassarsi, per
smaltire forse un po’ la sbornia. Sicuramente euforico,
forse cantava e barcollava ed era solo.
Una donna lo notò, spaventata chiamò la polizia.
Arrivarono degli agenti. Chiesero i documenti al ragazzo
che non li aveva con sé. Lo fermarono alle
5:47. Alle 6:10 arrivò una chiamata al 118, per quel
ragazzo «strano». Quando l’ambulanza giunse sul
luogo, Federico era già morto.
Per i giornali era morto di overdose, era un albanese,
erano stati i suoi amici a investirlo. Invece si
trattava di Federico Aldrovandi, studente diciottenne
di Ferrara, incensurato e senza nessun’arma.
Quella mattina i genitori erano preoccupati perché
Federico avvisava sempre in caso di contrattempi.
Allora lo chiamarono. Non ricevettero risposta.
Dopo vari tentativi qualcuno rispose dicendo che
aveva trovato il cellulare. Solo alle 11 Patrizia e Lino
verranno a sapere della tragedia.
All’obitorio trovarono Federico con il viso sfigurato,
il sangue alla bocca e un’ecchimosi all’occhio destro.
In loro sorsero dei dubbi. Poi si verrà a sapere di
due ferite lacero-contuse dietro la testa, dello scroto
schiacciato e di due petecchie – due lividi da compressione
– sul collo. Pestato, pestato e poi pestato.
La polizia lo avrebbe descritto come imbufalito,
una vera furia. Quattro agenti, fra cui una donna,
contro un adolescente che secondo loro avrebbe voluto
farsi del male da solo. Sbatteva la testa sul muro,
ma non saranno mai trovate tracce di sangue altrove,
se non per terra e sui vestiti indossati dal ragazzo. Per
tutti, il giorno dopo era un ragazzo morto su una
panchina per overdose. Dall’autopsia non è risultato
che avesse ingerito sostanze tossiche così forti da
provocare un’overdose. Comunque, l’autopsia venne
ritardata.
Quattro agenti di polizia risultarono feriti, ma non
si fecero ricoverare. Un manganello si ruppe, ma per
il questore si trattò di una disgrazia. Qualcuno vide
Federico immobilizzato, a terra. Un agente gli puntava
un ginocchio sulla schiena e un manganello sotto
la gola, mentre con l’altra mano gli tirava i capelli.
Il ragazzo sussultava, faceva salti di mezzo metro. Al
suo fianco, una poliziotta si sarebbe vantata: «L’ho tirato
giù io, ’sto stronzo!».
I quattro poliziotti autori del fermo e del pestaggio
oggi sono stati condannati, grazie alla tenacia e al
coraggio della famiglia. Patrizia Moretti, la madre di
Federico, è stata querelata più volte per aver rilasciato
dichiarazioni su cosa stava accadendo: omissioni,
depistaggi, che poi hanno portato alla condanna degli
agenti e di altri collaboratori.

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Il Ministro Angelino Alfano riceve il libro “La pena di morte italiana” insieme alle tre interregozioni parlamentari per far luce sulla morte di Niki Aprile Gatti. Dalla faccia che fa si evince che non è abituato all’incontro diretto con i cittadini. Espressione schifata! Lui è abituato a frequentare il padrone ed il suo avvocato per arrivare nel più breve tempo possibile al legittimo impedimento e al processo breve. I cittadini non sanno nemmeno di cosa si tratti, anche perchè se loro vanno in galera per un po’ di hashish ci muoiono.

Stefano Cucchi non aveva partecipato a nessun Bunga Bunga, tanto meno aveva il suo migliore amico condannato per mafia eppure è morto in carcere. In quel carcere tanto sovraffollato in cui è meglio che i mestieranti della politica non vadano ad aumentarlo. Il Ministro ha in mano un libro dove ci sono le storie di ragazzi che hanno commesso lo sbaglio di essere nel posto bagliato nel momento sbagliato: Federico Aldrovandi, Niki Aprile Gatti, Vito Daniele, Stefano Frapporti, Carlo Giuliani, Katiuscia Favero, Bledar Vukaj, Giuseppe Uva, Riccardo Rasman.

Alla luce di una violenza sessuale in caserma da parte di Carabinieri  il Ministro non dovrebbe soltanto leggere il libro ma imporre che non ci sia omertà, chi sbaglia dev’essere punito! Si discute sempre quale forma elettorale copiare, metodo francese o tedesco, forse bisognerebbe copiare la democrazia!

 

 

 

 

 

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Dalla testimonianza di Patrizia Moretti (mamma di Federico Aldrovandi) contenuta nel libro “La pena di morte italiana”

Federico non aveva paura, il papà è un vigile, la divisa non era un elemento di attenzione. Penso che sia per questo che era rimasto lì senza scappare. Voleva chiarire la sua posizione. A diciotto anni sei idealista, quindi lui avrà pensa: «Non ho i documenti, però ti dico chi sono!». Fra l’altro aveva mille modi per dimostrarlo, infatti aveva fatto numerose chiamate ai suoi amici che aveva appena salutato affinché andassero lì per dimostrare chi fosse. Se avesse avuto paura si sarebbe allontanato. E invece avrebbe dovuto avere paura. Inizialmente, quando proprio non sapevamo nulla, ci avevano detto che Federico era morto da solo. Ricordo quelle parole: «Le persone hanno sentito delle urla, hanno chiamato la polizia, quando sono arrivati i poliziotti, Federico si è accasciato a terra da solo e non c’è stato più nulla da fare». Mi dissero che c’era una donna, pensai che almeno qualcuno gli era stato vicino, non potendo esserci io. Questi pensieri durarono sì e no un giorno solo. Appena sapemmo delle percosse, della violenza assurda esercitata in quattro ci rendemmo conto che la versione che ci avevano fornito era falsa. Man mano si aggiungevano tasselli al mosaico e la situazione precipitava. Ogni dettaglio ci faceva capire che la violenza immaginata da noi non era nulla in confronto alla realtà…

… Federico nei suoi ultimi momenti di vita ha incontrato uno spaccato di umanità da orrore. Se fra le persone che hanno visto ce ne fosse stata solo una degna di questo nome, mio figlio sarebbe vivo. Sarebbe bastato che qualcuno si fosse fatto vedere affacciato alla finestra…

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Un libro uscito il 9 febbraio con l’intento di dare voce a chi ha incontrato il poliziotto, il carabiniere o l’agente di custodia sbagliato. Nello sport se un atleta sbaglia viene punito, il calcio ne è l’esempio più lampante, perché per le forze dell’ordine (per non parlare della politica) non avviene? Federico Aldrovandi non si è sbattuto per terra o contro un muro, poliziotti armati di manganello si sono scagliati contro di lui, appena 18 anni, con una furia animale. Il suo corpo livido: viso, genitali, petto. Poliziotti condannati senza essere stati sospesi un solo giorno dal servizio. Nel processo non è emerso qual è stato il ruolo di ognuno. Questa si chiama omertà.

Riccardo Rasman, un ragazzo affetto da schizofrenia in cura presso il centro di igiene mentale di Trieste è stato assalito in casa: imbavagliato, legato con il fil di ferro, picchiato ed ucciso non da malviventi, dalla polizia di Stato. Condannati a 6 mesi senza la sospensione dal servizio.

Stefano Cucchi lo ricordano tutti perché le sue foto sono ben note. Rinviati a giudizio tre agenti di polizia penitenziaria e processo breve per il direttore dell’ufficio detenuti.

Il 14 febbraio, giorno dell’amore, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria si sente offeso dalla prefazione di Beppe Grillo. Mi colpisce il passaggio in cui scrivono: “Non accettiamo che al duro, difficile e delicato lavoro che quotidianamente le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità vengano associati i terribili vocaboli di violenza, indifferenza, cinismo e omertà. Nel libro è specificato che non si accusa il sistema penitenziario, ma il sistema omertoso del coprirsi. La maggior parte degli uomini e delle donne sono onesti cittadini che oltre a compiere perfettamente il loro dovere sono genitori. Da genitore per i figli dobbiamo sempre discernere ciò che è bene da ciò che è male e un direttore di un carcere che dichiara: “Il detenuto non si massacra in sezione, il detenuto si massacra sotto” è un male che vanifica l’impegno delle persone oneste.

Nel libro c’è la testimonianza di Ornella Gemini, madre di Niki Aprile Gatti un ragazzo incensurato che per presunta frode informatica viene portato in un carcere di massima sicurezza. Viene arrestato nell’inchiesta Premium, i numeri a pagamento che hanno fatto disperare molti italiani. Niki dichiara da subito di voler collaborare. Per il primo ingresso in carcere esiste una circolare che prevede un trattamento di riguardo, in primis potersi mettere in comunicazione con i familiari. Al ragazzo non è permesso. Muore nel bagno della cella. Un ragazzo alto 1 metro e 80 cm di 92 chili si sarebbe suicidato con un laccio di scarpa in uno spazio che non lo permetteva. Il caso archiviato, deposizione del ragazzo secretata.

Ornella Gemini lancia un’iniziativa: acquistare il libro, leggerlo e poi perderlo in un luogo pubblico in città, con un messaggio: “Non sono stato dimenticato. Prendimi, leggimi e poi perdimi in qualche posto in città. Aiutami a dare voce a ragazzi che non ce l’hanno più. Un mamma!”

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