Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for the ‘La pena di morte italiana’ Category

pena-di-morteQuando intervistati la madre e la sorella di Stefano Cucchi ci incontrammo vicino al luogo dove fu arrestato il ragazzo.  Le due donne, seppur disperate e straziate dal dolore, avevano una speranza: la giustizia.  Raccontavano il dramma di Stefano, avevano messo a nudo la loro vita, foto diffuse attraverso i media con l’unico obiettivo di scoprire la verità. Iniziarono ad informarsi e trovarono Fabio Anselmo, l’avvocato della famiglia Aldrovandi. Dall’alta parte però sui giornali comparivano  le parole prive di fondamento dei massimi esponenti delle istituzioni: Giovanardi (allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche per la famiglia ed al contrasto per le tossicodipendenze) definì Stefano Cucchi un drogato morto di anoressia, La Russa espresse piena fiducia nelle forze di polizia. Giudizi per influenzare l’opinione pubblica, prima che la magistratura accerti cosa sia accaduto, non dovrebbero esprimersi in un Paese civile e democratico. Stefano Cucchi è stato portato in carcere e nella cartella clinica c’è scritto: “Riferisce caduta accidentale nella giornata di ivi (16/10/2009) consigliato ricovero presso Fate Bene Fratelli che il detenuto ha rifiutato” Inoltre lamentava dolore all’addome e alla regione sacro coccigea. In un altro referto si può leggere “Si rilevano lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente, di lieve entità e colorito purpureo. Riferisce dolore e lesioni anche alla regione sacrale e agli arti inferiori, ma rifiuta l’ispezione.” Già questi pochi dettagli bastano per sollevare dei dubbi. Aspetteremo le motivazioni della sentenza che assove gli infermieri, ma soprattutto gli agenti di polizia penitenziaria. Da non dimenticare che Stefano la prima notte la trascorse nella caserma dei carabinieri e la mattina in tribunale aveva già il volto segnato, ma i carabinieri raramente vengono indagati.

da  “La pena di morte italiana”. Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi sono morti in circostanze oscure dopo l’arresto da parte delle forze dell’ordine. Casi ormai emblematici che grazie allo sforzo delle famiglie sono arrivati in tribunale. Ma per poche storie che hanno conquistato le prime pagine dei quotidiani, ce ne sono molte altre che l’opinione pubblica ha dimenticato o ignorato. Come quella di Niki Aprile Gatti, arrestato per una frode informatica in cui è coinvolta la società dove lavora. Unico tra i 18 accusati, accetta di collaborare, e cinque giorni dopo viene trovato impiccato in prigione. Come può un laccio da scarpe aver retto il peso di un ragazzo di 92 chili? E Fabio Benini, morto a trent’anni di infarto alle Vallette di Torino: soffriva di anoressia, aveva perso 50 chili e collassava due volte al giorno, perché nessuno ha saputo intervenire? Non bastano il sovraffollamento e l’inadeguata assistenza psicologica e sanitaria a spiegare queste storie: spesso sono proprio le forze dell’ordine a macchiarsi di omissione di soccorsoabusi e violenze contro i detenuti che dovrebbero proteggere e rieducare. In questo racconto di troppe morti sospette, Samanta di Persio ricostruisce, attraverso verbali e testimonianze dei famigliari, gli episodi più inquietanti, fa il punto sulle indagini in corso e denuncia il silenzio delle istituzioni. Perché l’Italia per legge non ammette la pena di morte e la tortura, ma forse le tollera quando avvengono dietro le sbarre. 

Read Full Post »

federicoMa quanti gradi di giudizio esistono in Italia?” Sono le parole di Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, dopo aver appreso la notizia degli arresti domiciliari per l’agente Monica Segatto. Per arrivare ad una sentenza della Cassazione, che ha confermato la pena per gli assassini di un ragazzo di 18 anni, c’è voluto il coraggio, la forza di Patrizia, Lino e di chi ha sempre creduto che Federico era stato ammazzato. Dopo il fatto, le indagini sono state affidate alla polizia, inquirente e indagato coincidevano ed infatti nei primi mesi: depistaggi, fascicoli vuoti, indagini lente.

Nel 2012, dopo 7 anni, la condanna definitiva: tre anni e sei mesi (tre anni rientrano nell’indulto) quindi sei mesi. Da una parte un ragazzo di 18 anni che non tornerà mai più a casa, dall’altra uomini in divisa che violano le leggi, sulle quali prestano giuramento,che vengono condannati a scontare una pena insignificante. Ma l’orrore non finisce con una sentenza ingiusta, continua: il sindacato Coisp si è presentato sotto la finestra dove lavora Patrizia con un cartello sul quale c’era scritto: “La legge non è uguale per tutti”. Già, la legge non è uguale per tutti. Le norme in materia di sospensione delle forze di polizia sono chiare: l’articolo 8 all’art. 8 del  D.P.R. 737/1981 prevede la destituzione di diritto  per condanna, passata in giudicato, che importi l’interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici. L’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare.” La sospensione dal servizio e la destituzione vengono inflitte a seguito del giudizio del consiglio centrale o provinciale di disciplina (poliziotti che devono decidere l’allontanamento di altri poliziotti, quindi mai sospesi nemmeno dopo la sentenza di primo grado, sic!).

C’è qualcosa di inspiegabile che è accaduto nella nostra società. Ognuno si arroga il diritto di poter interpretare qualsiasi fatto in maniera soggettiva. Non esistono più le sentenze, non esiste  più l’oggettività della magistratura, non esistono più le leggi: c’è chi può non rispettarle, c’è chi decide se andare o meno ad un’udienza dove si dibatte per la propria innocenza o colpevolezza. Un Paese affetto da follia. Ci sono madri che piangono i loro figli perché sono stati ammazzati da chi dovrebbe rappresentare lo Stato e dovrebbe dare il massimo esempio del rispetto delle leggi italiane.

Le parole di Haidi Giuliani, intervistata per il libro, “La pena di morte italiana“, oggi ancor di più, dovrebbero essere seriamente prese in considerazione da chi ha un ruolo di dirigenza nelle forze di polizia: “E’ possibile che una persona, lavorando all’interno della polizia, non si trovi mai ad assistere a comportamenti scorretti? No, non è possibile. Se ciascuno denunciasse responsabilmente ogni irregolarità, ogni abuso, ogni prepotenza, tutto questo non sarebbe avvenuto, non sarebbe esistito. Ma si sa: una mano lava l’altra; si sa: tutti hanno famiglia, tutti hanno paura delle ritorsioni, di compromettere le proprie possibilità di fare carriera, o peggio, di perdere il lavoro. Così si comincia a chiudere un occhio, poi entrambi e si finisce per sentirsi dire: “I poliziotti sono dei bastardi” E’ sempre sbagliato generalizzare: bisogna guardare al comportamento di ognuno ed evitare i giudizi sommari; tuttavia conosco parecchie persone che, ormai, quando vedono una divisa cambiano strada (…) Nelle testimonianze delle persone che hanno subito violenze a Bolzaneto si legge che alcuni agenti hanno avuto un comportamento “più umano”; però poi quegli stessi agenti non hanno denunciato le violenze cui hanno assistito. Questo non è soltanto corporativismo, questa è omertà. Con l’omertà non si riconquista la propria dignità.

ps. Ho meditato molto sulla scelta della foto, avrei voluto mettere una foto sorridente, ma poi mi sono detta : “C’è qualcuno che ancora non ha capito e allora è il caso di non dimenticare mai il volto di Federico dopo il pestaggio da parte delle forze dell’ordine”

Read Full Post »

stefanoI periti della Corte d’Assise di Roma si sono pronunciati sulla morte di Stefano Cucchi: “Morì per grave carenza di cibo e liquidi“. E’ vero Stefano aveva rifiutato di nutrirsi per avere un contatto con l’esterno, di ciò ne era consapevole anche la madre quando la intervistai per il libro La pena di morte italiana (Rizzoli), ma prima di morire  accadde qualcosa. Chi ha provocato quaato riportato dai medici nei referti? Il  medico che lo visitò all’ingresso in carcere dichiarò che Stefano stava male e in carcere non poteva starci: «Si rilevano lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente, di lieve entità e colorito purpureo. Riferisce dolore e lesioni anche alla regione sacrale e agli arti inferiori, ma rifiuta l’ispezione“. Successivamente venne portato al Fatebenefratelli, dalle radiofrafie risultarono «frattura del corpo vertebrale di L3 sull’emisoma sinistro e frattura della prima vertebra coccigea». La famiglia non vedrà mai più il ragazzo dopo l’arresto ed il ricovero al Sandro Pertini.  Stefano lasciato morire perchè avrebbe potuto raccontare qualcosa?  La pena di morte per esser stato trovato con venti grammi di hashish, due di cocaina e due pasticche scambiate per ecstasy invece erano le sue pillole salvavita perché soffriva di epilessia.

Il racconto della madre di Stefano tratto da “La pena di morte italiana”: “Stefano era un ragazzo normalissimo di trentun anni. Aveva avuto problemi di tossicodipendenza in passato, nel 2004 aveva deciso di cominciare un percorso in comunità per disintossicarsi, durato fino al 2007. Con molto impegno e determinazione ne era uscito. Tornato nella società, doveva ricominciare da zero: trovare un lavoro, amicizie, doveva ricostruire la sua vita. In tutti i momenti aveva sempre cercato il sostegno della famiglia, ogni volta dato per migliorare e non come premio. Abbiamo sempre cercato di dare un aiuto costruttivo.(…) Se si era avvicinato al mondo della droga era un ragazzo con le sue fragilità. Non sospettavamo che fosse ricaduto nella tossicodipendenza. Forse abbiamo abbassato la guardia, dopo avere avuto molti momenti difficili, non abbiamo riconosciuto i segnali che probabilmente non erano ai livelli passati.(…) Lo abbiamo scoperto la notte del 15 ottobre. Stefano aveva cenato a casa nostra, era stato benissimo, aveva parlato con noi. Poi uscì per tornare a casa sua. (…)Verso le 22:30 portò fuori la sua cagnetta. All’una di notte tornò a casa per la perquisizione. Citofonò: «Mamma, apri!». Ce l’avevo di fronte, stava bene: non aveva segni sul viso, camminava sulle sue gambe, soltanto un po’ dispiaciuto per la delusione che ci stava procurando. Con lui tre uomini in abiti civili. Dopo poco, dalle scale arrivarono due uomini in divisa. (…) Una perquisizione svolta in maniera superficiale, una mezz’oretta solo nella sua stanza. Chiesero se c’erano altre stanze da vedere, rispondemmo: «Potete vedere ovunque». Andarono via senza trovare nulla. Preoccupata chiesi: «Dobbiamo chiamare l’avvocato?», e loro: «Non si preoccupi signora, già fatto, e per così poco domani torna a casa ai domiciliari». (…)

Dai verbali abbiamo saputo che la mattina, qualche ora prima dell’udienza, c’era stato un intervento piuttosto insolito del 118. A mio avviso non ebbe nessun attacco epilettico, perché un attacco si riconosce, lo stesso infermiere se ne sarebbe accorto. Invece una delle prime stranezze è questa: l’infermiere vide Stefano in una stanza poco illuminata, non aveva modo di scorgere il ragazzo perché lo descrisse sempre completamente coperto, viso compreso. Il 118 era stato chiamato per schizofrenia. Quando l’uomo gli chiese: «Come stai?», Stefano rispose: «Bene, non ho bisogno di niente». Alla fine del verbale c’era scritto: «Il paziente rifiuta il ricovero». Mi sono chiesta perché mio figlio non voleva farsi vedere? Perché era coperto? Conoscendolo non so spiegarmelo.

Dopo l’udienza venne portato nel carcere di Regina Coeli. Un testimone, un detenuto ghanese, dichiarò di avere visto dopo l’udienza il pestaggio nei sotterranei del Tribunale da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Lo visitò un medico, che segnalò la difficoltà del ragazzo a camminare; il medico dichiarò che Stefano stava male e in carcere non poteva starci. (…) Lo ricoverarono presso il Fatebenefratelli. (…) Gli vennero dati venticinque giorni di prognosi, che Stefano rifiutò per tornare in carcere. (…) Lo ricondussero in carcere e la mattina seguente lo visitò un altro medico, lo portarono nuovamente al Fatebenefratelli e poi da qui nella struttura protetta del Sandro Pertini. Altra anomalia, in quanto questo è un luogo di degenza dove non sono attrezzati per emergenze. Dalla relazione sembrerebbe che Stefano avesse accettato il ricovero con la condizione di incontrare il suo avvocato. (…)

Stefano aveva lasciato un documento, una lettera per l’operatore della comunità terapeutica che l’aveva avuto in cura in passato, in cui si capisce che voleva vivere:

Roma 20 ottobre 2009

Caro Francesco,

sono al Sandro Pertini in stato di arresto, scusami se ora sono di poche parole, ma sono giù di morale e posso muovermi poco. Volevo sapere se potevi fare qualcosa per me. Adesso ti saluto, a te e agli altri operatori.

P.S. Per favore rispondimi.

La lettera inizialmente non era stata menzionata. Si diceva che Stefano si era lasciato morire. Invece il suo rifiuto era una protesta, così come scritto nella cartella clinica. Il suo obiettivo era un contatto con l’esterno. Nessuno gli ha consentito ciò che era un suo diritto.”

pena di morte

Read Full Post »

24 settembre 2005, Federico ha 18 anni e tutta la vita davanti. La mattina a scuola ed il pomeriggio con il pensiero della sera da trascorrere in discoteca. Forse un po’ di alcool, forse una pasticca come fanno purtroppo tanti ragazzi della sua età per sballarsi. Al rientro, verso le 5 del mattino, si fece lasciare dai suoi amici vicino all’ippodromo di Ferrara, voleva fare due passi a piedi. Sicuramente euforico: cantava, barcollava ed era solo. Una donna lo nota, chiama la polizia. Questi arrivano, chiedono i documenti a Federico che purtroppo non ha con sé.

Lo fermano alle 5:47. Alle 6:10 arriva una chiamata al 118, per quel ragazzo «strano». Quando l’ambulanza giunge sul luogo, Federico è già morto. Per i giornali è morto di overdose, è un albanese, gli amici lo hanno investito. Invece è Federico Aldrovandi, studente diciottenne di Ferrara, incensurato e senza nessuna arma.

I genitori sono preoccupati, il figlio ancora non rientra a casa. Chiamano più volte sul cellulare, senza riceve risposte. Alle 11 Patrizia e Lino vengono a sapere della tragedia. All’obitorio trovano Federico con il viso sfigurato, il sangue alla bocca e un’ecchimosi all’occhio destro. Poi vengono a sapere di due ferite lacero contuse dietro la testa, lo scroto schiacciato, due petecchie – due lividi da compressione – sul collo. Pestato, pestato e poi ancora pestato.

La polizia lo descrive come imbufalito, una vera furia. Quattro agenti, fra cui una donna, contro un adolescente che secondo loro avrebbe voluto farsi del male da solo. Sbatteva la testa sul muro, ma non saranno mai trovate tracce di sangue altrove, se non per terra e sui vestiti indossati dal ragazzo. Dall’autopsia non risulta che avesse ingerito sostanze tossiche così forti da provocare un’overdose. Qualcuno ha visto Federico immobilizzato, a terra. Un agente gli puntava un ginocchio sulla schiena e un manganello sotto la gola, mentre con l’altra mano gli tirava i capelli. Il ragazzo sussultava, faceva salti di mezzo metro. Al suo fianco, una poliziotta si sarebbe vantata: «L’ho tirato giù io, ‘sto stronzo!»

Condannati: in primo e secondo grado. Per Patrizia Moretti: «Condanna sia e condanna resti» Il 21 giugno 2012 anche la Cassazione conferma la condanna a 3 anni e 6 mesi,  3 anni rientrano nell’indulto. Eccesso colposo nella forza (la chiamerei violenza). I poliziotti dal 2005 non sono stati mai sospesi, semplicemente allontanati. E’ vero, si è innocenti fino al terzo grado di giudizio, ma qui si tratta di forze di polizia, di tutori della sicurezza pubblica. La condanna diventa una sentenza storica, ma in un Paese democratico e civile dovrebbe essere la normalità. Gli stessi poliziotti che fanno bene il loro lavoro dovrebbero chiedere l’allontanamento dei colleghi. La famiglia Aldrovandi ha ricevuto minacce, querele per aver avuto la forza di andare avanti. Federico non è mai tornato a casa.

La testimonianza di Patrizia Moretti è contenuta nel libro La pena di morte italiana

Read Full Post »

Voglio concludere quest’anno con la sintesi di alcune vite che mi hanno colpita più di altre per la loro tragicità. Ho avuto la possibilità di raccontare le loro storie di malagiustizia nei miei libri e penso alle loro festività spezzate.

Una, dieci, cento volte vittime italiane dell’indifferenza, dell’avidità, dell’ingiustizia.

“Morti bianche” Casaleggio Associati 2008

Andrea Gagliardoni ha 23 anni, lavora ad Ortezzano, è stato assunto con un contratto di formazione e lavoro. Il 19 giugno 2006 comincia il suo turno presto, alle 5.00. Dopo un’ora dal suo arrivo la pressa tampografica sulla quale sta lavorando incomincia a dare dei problemi. Il ragazzo è solo e mette in stand by il macchinario che riparte spezzandogli l’osso del collo. Muore sul colpo, due indagati per omicidio colposo, due colpevoli condannati ad 8 mesi con la condizionale. La madre Graziella Marota denuncia: “E’ inconcepibile perdere un figlio per colpa del profitto. Tutto ciò è accaduto perchè quella macchina assasina era priva di mezzi di sicurezza: doveva avere tre leve a garanzia, ma in base alle perizie ce n’era solo una e, quell’unica, è stata tolta per velocizzare la produzione

Pietro Mirabelli è un calabrese di 51 anni, è un rls (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza), lavora nel Mugello per la realizzazione della TAV Bologna-Firenze. Ha denunciato il ricatto a cui sono sottoposti i lavoratori: “Sulle procedure di sicurezza presenti sui piani operativi c’è scritto ciò che si può fare e ciò che non si può fare. Un lavoratore consapevole del rischio cha va ad affrontare, volendo potrebbe rifiutarsi di eseguire un incarico pericoloso. Ma a pericolo identificato si pensa alla famiglia, non si vuole mettere a rischio il posto di lavoro considerando quanto è difficile trovarne uno” Pietro è morto sul lavoro in Svizzera il 22 settembre 2010.

Ruggero Toffolutti è il simbolo di una morte e una nascita. Dopo l’incidente che gli è costato la vita la madre Valeria Parrini ed il suo papà Roberto Toffolutti hanno dato vita all’associazione nazionale Ruggero Toffolutti contro gli infortuni sul lavoro, Valeria grida con forza: “E facciamo del nostro meglio per ricordare alle istituzioni, agli organi di controllo, a politici e sindacati che le loro grida di sdegno sempre pronte a levarsi quando un altro lavoratore ci lascia la pelle, hanno il valore delle classiche lacrime di coccodrillo senza un impegno adeguato e costante a carattere preventivo e repressivo nei confronti delle aziende e delle loro ragioni economiche, che restano gli imputati principali di questa strage continua e silenziosa

“Ju tarramutu. La vera storia del terremoto in Abruzzo” Casaleggio Associati 2009

Giustino Parisse nel terremoto che ha colpito L’Aquila il 6 aprile 2009 ha perso i suoi figli, il suo papà e la sua abitazioni. Giustino è un giornalista. Dalla sua testimonianza emerge il significato di sentirsi dieci, cento, mille volte vittima: Apettavamo il risultato della riunione del 31 marzo con la Commissione Grandi Rischi, il sindaco, gli assessori. Il giornale aveva preparato un paginone con il numero delle scosse, l’intensità, quando e dove c’erano state. Loro dissero: “E’ tutto a posto” (…) Gli esperti dovevano dire che questo sciame sismico può presupporre una forte scossa. Se state in una casa in cemento armato: potete stare tranquilli; in una in pietre: fate attenzione. Se io fossi stato messo in allarme in quel modo, forse mi sarebbe venuto in mente di uscire fuori, di dormire in auto. Come operatore dell’informazione venivo informato male, e di conseguenza informavo male. Il paradosso è che la prima vittima sono stato io

Davide Centofanti è uno studente, la notte del 6 aprile dorme nella casa dello studente insieme agli altri 7 ragazzi che rimarranno sotto le macerie dell’edificio. Antonietta Centofanti, zia di Davide e presidente del Comitato vittime della casa dello studente, ricorda suo nipote: “Era rimasto a L’Aquila perchè doveva dare un esame, gli mancavano sei crediti per raggiungere quelli che gli occorrevano per il rinnovo della borsa di studio. Così, altri ragazzi, non sono tornati a casa perchè dovevano studiare, se avessero perso la borssa di studio non avrebbero potuto continuare gli studi. La cosa più terribile è che hanno interrotto questo cammino a questi ragazzi. Non sapremo mai che donne e uomini sarebbero diventati

“La pena di morte italiana” Rizzoli 2011

Niki Aprile Gatti lavora a San Marino, viene arrestato per presunta frode informatica insieme ad altre diciassette persone. E’ un ragazzo incensurato, ma viene portato in un carcere di massima sicurezza: Sollicciano. Dopo cinque giorni è stato trovato impiccato nel bagno della cella. Ci sono ancora molte ombre nella sua morte archiviata dalla magistratura come suicidio. “Hanno voluto farmi credere al suicidio, ma non l’ho creduto nemmeno per un attimo. Niki era consapevole della sua genialità, del suo riuscire a districarsi in ognioccasione, Niki non aveva mai avuto problemi con la giustizia, Niki non era mai entrato nemmeno in visita a un carcere, Niki non doveva essere trattato in questo modo”  sono le parole della madre Ornella Gemini

Tutti gli altri non sono meno importanti, per motivi di spazio ho ricordato Andrea, Pietro, Ruggero, Giustino, Davide e Niki. In queste parole penso che si rispecchino tutti coloro che ho intervistato in questi tre anni e coloro che purtroppo non hanno voce, ma in silenzio soffrono.

Read Full Post »

In Italia, come tutti sanno, non esiste la pena di morte. C’è, è vero, ancora la libertà di tortura, in quanto il nostro codice penale non la contempla e qualcuno
se ne approfitta, come durante il G8 di Genova a Bolzaneto e alla scuola Diaz.
Ma la pena di morte non esiste più dal 1° gennaio 1948 come recita la Costituzione italiana. (prefazione Beppe Grillo)

Giuseppe Uva arrestato senza aver commesso reato, portato in caserma e poi in ospedale: è morto dopo qualche ora, le intercettazioni sono chiare, nessun carabiniere indagato

Quella sera era stato arrestato anche un altro ragazzo.
Lo si evince dalle intercettazioni delle 7:54. Giuseppe
era in ospedale. Per un minuto e mezzo, i militari del
Radiomobile risero, si scambiarono battute, poi parlarono
dei due fermati.
Carabiniere 1: «Paolo era impegnato con Uva Giuseppe,
stanotte»
Carabiniere 2: «Sì, sì».
C1: «E poi io gli ho portato qua anche il F.B. Gliel’ho detto
a Mario, non so chi è tra i due… Chi è il migliore. Non
lo so, Uva…».
C2: «No, no. Uva fisicamente lo puoi tenere, è debole».
C1: «Ah…».
C2: «Il B. era intenibile».

Riccardo Rasman, ucciso in casa dalla polizia, i poliziotti sono stati condannati a sei mesi con la condizionale

I Vigili del fuoco salirono, a detta del vigile Giovanni Sadoch, e trovarono gli altri agenti sul pianerottolo: tre uomini e una donna, che ordinarono di sfondare la porta. Questi agenti avevano già il manganello in mano, perlomeno uno di
loro. Certi che si trattasse di Riccardo Rasman diedero il via all’operazione.
Entrati, è facile immaginare come ammanettarono mio fratello: lo tennero fermo sul letto, dopo averlo
steso a pancia a terra, chiesero ai Vigili del fuoco di aiutarli a legargli le caviglie col fil di ferro. Lo imbavagliarono
persino. Gli salirono sulla schiena. Sadoch durante l’interrogatorio affermò anche:
«Tornando al momento in cui l’uomo è stato ammanettato, devo dire che poco dopo sono arrivati altri
agenti, i quali ci hanno detto che potevamo andare via, e così abbiamo fatto». Riccardo era ancora vivo,
anche se immobilizzato in quelle tremende condizioni e con la testa insanguinata.

 

Read Full Post »

Il sesso è ancora un tema tabù, imbarazzante in alcuni ambiti, se non c’è castità nella Chiesa come potremmo permetterla o pretenderla in un luogo di detenzione?  Forse al Presidente del Consiglio dobbiamo proprio il merito di aver fatto emergere l’Italia peggiore anche nelle abitudini sessuali, non tanto per donne ed uomini impegnati in orge, ma perchè è emerso come il  sogno proibito, ma non difficile da realizzare, del Paese. Amanda Knox non è italiana, il motivo per cui è finita in carcere è noto, sono tutti affascinati da questa ragazza acqua e sapone, ma intrigante e scaltra, che continua a scandalizzare sfogliando il suo diario non appena torna in libertà. Dai tabloid inglesi si apprende la notizia che in Italia un vicecapo del carcere di Capanne (quello in cui ha perso la vita in modalità ancora non chiare, sicuramente violente, Aldo Bianzino) sarebbe stato molto curioso sulle sue pratiche sessuali. Subito è partita la corsa alle smentite e la caccia alla verità. Quando accadono fatti violenti e/o violenze sessuali in carcere, gli agenti, i medici fanno quadrato su “una verità”. La storia italiana annovera molti casi di violenze sessuali, psicologiche in carcere o in ospedali psichiatrici giudiziari (opg).

Nel 2005 Sonia Caleffi, meglio nota come infermiera killer, accusò un agente di polizia penitenziaria per essere stata violentata all’ospedale Sant’Anna dov’era piantonata dopo l’arresto. L’uomo fu iscritto nel registro degli indagati.

A marzo di quest’anno una donna di 32 anni era stata fermata a Roma per il furto di una maglietta, la donna fu portata in caserma e subito dopo denunciò i suoi violentatori: tre carabinieri ed un vigile urbano, questi si difesero dicendo che la donna era consenziente.

Katiuscia Favero (nel libro “La pena di morte italiana”) aveva rubato un orologio, era stata definita border line, la sua pena doveva essere scontata nell’opg di  Castiglione delle Stiviere (Mn), nel 2002 accusò di essere stata violentata da due infermieri ed un medico. Immediatamente venne trasferita nella casa circondariale di Genova, da notare come all’improvviso fosse sana mentalmente e compatibile con la vita carceraria. Il referto ginecologico che attestava la violenza scomparve, il processo si concluse con un non luogo a procedere. Poco dopo la Favero fece ritorno nell’opg dov’era accaduto il fatto. In una notte di pioggia del 17 novembre del 2005 venne trovata morta, suicidio con un lenzuolo appeso ad una rete da pollaio, in una zona non accessibile agli internati, scarpe perfettamente pulite, la registrazione delle telecamere non è mai stata richiesta ed esame ungueale mai effettuato. I morti non tornano in vita, tutto finisce nel silenzio.

Dalla libertà di Amanda Knox potrebbe emergere il lato oscuro delle carceri italiani, di cui è vietato parlarne, ancora una volta è il nostro Paese ad uscirne sconfitto su tutti i fronti.

Read Full Post »

Federico aveva diciotto anni e tutta una vita davanti.
Una gran voglia di «spaccare il mondo». Era il 24 settembre
2005. La mattina a scuola e poi tutto il pomeriggio
passato con il pensiero della sera in discoteca.
Forse una pasticca, un po’ di alcol per sballarsi per restare
tutta la domenica a letto. Come fanno purtroppo
tanti suoi coetanei. Al rientro, verso le cinque del
mattino, si fece lasciare vicino all’ippodromo di Ferrara,
voleva fare due passi a piedi per rilassarsi, per
smaltire forse un po’ la sbornia. Sicuramente euforico,
forse cantava e barcollava ed era solo.
Una donna lo notò, spaventata chiamò la polizia.
Arrivarono degli agenti. Chiesero i documenti al ragazzo
che non li aveva con sé. Lo fermarono alle
5:47. Alle 6:10 arrivò una chiamata al 118, per quel
ragazzo «strano». Quando l’ambulanza giunse sul
luogo, Federico era già morto.
Per i giornali era morto di overdose, era un albanese,
erano stati i suoi amici a investirlo. Invece si
trattava di Federico Aldrovandi, studente diciottenne
di Ferrara, incensurato e senza nessun’arma.
Quella mattina i genitori erano preoccupati perché
Federico avvisava sempre in caso di contrattempi.
Allora lo chiamarono. Non ricevettero risposta.
Dopo vari tentativi qualcuno rispose dicendo che
aveva trovato il cellulare. Solo alle 11 Patrizia e Lino
verranno a sapere della tragedia.
All’obitorio trovarono Federico con il viso sfigurato,
il sangue alla bocca e un’ecchimosi all’occhio destro.
In loro sorsero dei dubbi. Poi si verrà a sapere di
due ferite lacero-contuse dietro la testa, dello scroto
schiacciato e di due petecchie – due lividi da compressione
– sul collo. Pestato, pestato e poi pestato.
La polizia lo avrebbe descritto come imbufalito,
una vera furia. Quattro agenti, fra cui una donna,
contro un adolescente che secondo loro avrebbe voluto
farsi del male da solo. Sbatteva la testa sul muro,
ma non saranno mai trovate tracce di sangue altrove,
se non per terra e sui vestiti indossati dal ragazzo. Per
tutti, il giorno dopo era un ragazzo morto su una
panchina per overdose. Dall’autopsia non è risultato
che avesse ingerito sostanze tossiche così forti da
provocare un’overdose. Comunque, l’autopsia venne
ritardata.
Quattro agenti di polizia risultarono feriti, ma non
si fecero ricoverare. Un manganello si ruppe, ma per
il questore si trattò di una disgrazia. Qualcuno vide
Federico immobilizzato, a terra. Un agente gli puntava
un ginocchio sulla schiena e un manganello sotto
la gola, mentre con l’altra mano gli tirava i capelli.
Il ragazzo sussultava, faceva salti di mezzo metro. Al
suo fianco, una poliziotta si sarebbe vantata: «L’ho tirato
giù io, ’sto stronzo!».
I quattro poliziotti autori del fermo e del pestaggio
oggi sono stati condannati, grazie alla tenacia e al
coraggio della famiglia. Patrizia Moretti, la madre di
Federico, è stata querelata più volte per aver rilasciato
dichiarazioni su cosa stava accadendo: omissioni,
depistaggi, che poi hanno portato alla condanna degli
agenti e di altri collaboratori.

Read Full Post »

L’unto dal signore va rispettato. Unico caso al mondo in cui il capo del Governo è imputato per 5 reati diversi. Non importa se il Paese è affondato, ma i servi fanno l’inchino e devono obbedire, altrimenti in Parlamento non ci tornano nemmeno a fare gli usceri.

Ornella Gemini, madre di Niki Aprile Gatti ha consegnato tre interrogazioni al ministro Alfano con il libro “La pena di morte italiana” la sua promessa: “Leggerò”. Per affrettare il processo breve è evidente che non ha letto. Eppure è scritto in maniera semplice, per un bambino di 11 anni anche non troppo intelligente… così Silvio Berlusconi si espresse a proposito della comunicazione.

Niki Aprile Gatti incensurato, arrestato per presunta frode informatica (inchiesta Premium) tradotto in un carcere di massima sicurezza a Sollicciano. Da subito si dichara collaborativo, vuole dire tutto quello che sa. Solo i potenti fanno gli arresti domiciliari, l’ultimo scempio le cricche. Angelo Balducci, il nobil uomo di sua eccellenza, arresti domiciliari in villa con piscina, tanto ormai gli appalti a L’Aquila erano stati presi  ed i soldi degli italiani già al sicuro in un paradiso fiscale.

Niki dopo 20 ore dalla sua deposizione in procura viene trovato morto nella sua cella. Le versioni dei compagni di cella non coincidono. Ha un livido a forma di cerchio sul braccio, ma nessun esame tossicologico. Il laccio con cui si sarebbe tolto la vita riconsegnato così, tutti l’hanno toccato. L’appartamento di Niki e l’azienda subiscono un furto dove perfino le tende vengono portate vie. Lo Stato archivia, senza indagini. Oggi lo Stato non rappresenta più nessuno.

Read Full Post »

Giuliana Rasman racconta la tragedia vissuta dalla sua famiglia nel libro “La pena di morte italiana”. Il legittimo impedimento è fra le priorità dell’agenda politica , mentre in questo Paese la gente chiede Giustizia e applicazione dell’articolo 3 della Costituzione.

(…) Erano le 20:25. Dopo dieci minuti giunsero altri due agenti: Miraz e De Biasi, che salirono al quarto piano, in attesa dei vigili. Secondo la registrazione telefonica, alle 20:38’08’’, Mis chiamò la centrale chiedendo di verificare il cognome del tipo che non voleva aprire e chiese se era seguito presso il centro di salute mentale di Domio o dall’Ospedale Maggiore. Quando arrivarono i Vigili del fuoco, erano in
quattro, al portone d’ingresso incrociarono altri due agenti che li attendevano per indicare loro l’appartamento segnalato. I Vigili del fuoco salirono, a dettadel vigile Giovanni Sadoch, e trovarono gli altri agenti sul pianerottolo: tre uomini e una donna, che ordinarono di sfondare la porta. Questi agenti avevano
già il manganello in mano, perlomeno uno diloro. Certi che si trattasse di Riccardo Rasman diederoil via all’operazione. Entrati, è facile immaginare come ammanettaronomio fratello: lo tennero fermo sul letto, dopo averlo steso a pancia a terra, chiesero ai Vigili del fuoco di aiutarli a legargli le caviglie col fil di ferro. Lo imbavagliarono persino. Gli salirono sulla schiena. Sadoch durante l’interrogatorio affermò anche: «Tornando al momento in cui l’uomo è stato ammanettato, devo dire che poco dopo sono arrivati altri agenti, i quali ci hanno detto che potevamo andare via, e così abbiamo fatto». Riccardo era ancora vivo, anche se immobilizzato in quelle tremende condizioni e con la testa insanguinata. (…)

La carne di Riccardo Rasman trovata sotto il suo tappeto!

Read Full Post »

Older Posts »